Pietro RAVA

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Welcome Back Caceres
view post Posted on 12/2/2012, 18:41     +1   -1




I ragazzi torinesi abitanti nel rione della Crucetta ed in quelli della periferia occidentale della città, avevano un numero relativamente alto di campi sui quali giocare a calcio; il più frequentato, tuttavia, era il campo del Dopolavoro Ferroviario, in corso Parigi, l’attuale corso Rosselli. Proprio sul terreno dei Ferrovieri, la squadra che non aveva nelle proprie file un ragazzone che si chiamava Piero Rava, aveva diritto a giocare con un uomo in più, per il semplice fatto che Rava valeva il doppio.

Rava abitava a cento metri dal campo del Dopolavoro Ferroviario (il papà di Piero era capostazione a Porta Susa), mentre a poco più di duecento metri in linea d’aria c’era il campo in corso Marsiglia, dove giocava la Juventus, squadra per la quale, inutile dirlo, il ragazzone faceva il tifo.

Rava diceva: «Lasciando aperta la finestra della mia camera, mi arrivava molto chiaro il grido d’incitamento della folla. Quando sentivo l’urlo irrefrenabile dei tifosi, capivo benissimo che la Juventus aveva segnato».

Il campo di corso Marsiglia era vicino a quello di corso Parigi, ed era frequente che alcuni soci bianconeri andassero sino al terreno dei Ferrovieri per dare un’occhiata ai molti ragazzi che prendevano a calci un pallone. Fra questi soci c’era un certo Greppi, il quale rimase immediatamente impressionato dalla velocità di quel giocatore dai capelli biondi che giocava all’ala sinistra: un atleta dalla forza incredibile, foga che, dopo le prime battute di gioco, conferiva al viso del ragazzo tinte infuocate. Pierone, infatti, dopo cinque minuti dall’inizio della partita, diventava addirittura paonazzo, colore che dava in certo qual modo la misura della straripante passione del giovanissimo calciatore.

Greppi aveva informato un dirigente juventino che si occupava delle squadre minori: Maccagno, factotum del Gruppo Anziani Juventus, questi andò a vedere un paio di partite nelle quali era impegnato Rava ed ebbe anche qualche colloquio con il giocatore. Piero Rava venne anche convocato per alcuni provini alla Juventus, tuttavia, per un certo periodo di tempo non ebbe più alcuna comunicazione da parte della società. Rava, come raccontava qualche tempo più tardi, ebbe la sensazione di essere stato scartato e trascorse un paio di mesi molto arrabbiato; avrebbe, infatti, pagato di tasca sua per indossare la maglia bianconera della Juventus.

Invece la Juventus si rifece viva, tesserò Rava e lo mise a disposizione di Armano, ex terzino della squadra che nel 1905 aveva vinto il primo scudetto, che era in quegli anni l’allenatore della squadra ragazzi e vide immediatamente che il ragazzo possedeva ottime qualità. Nonostante ciò fu deciso il temporaneo trasferimento del giocatore alla Virtus, società affiliata alla Juventus.

Tornò bianconero per l’esordio nella stagione 1935/36, quando Rava aveva appena diciannove anni. Nella Juventus di quegli anni c’erano ancora parecchi vecchi campioni pluriscudettatti, come Rosetta, Varglien, Monti, Bertolini, Borel, Varglien II° e Serantoni. C’erano anche Foni e Guglielmo Gabetto, inseparabile amico di Piero, cresciuto con lui nella squadra bianconera dei ragazzi.

Così Rava raccontava la sua gara d’esordio: «La squadra aveva pareggiato in casa con il Bologna, per 0-0, nel corso della quale si era leggermente infortunato Rosetta. L’allenatore decise allora di spostare Foni a destra e di farmi debuttare nella successiva partita da giocarsi in trasferta contro la Fiorentina. Nel primo tempo la Juventus giocò un ottimo calcio e concluse in vantaggio, grazie ad un goal di Varglien I°, la prima frazione. Nella ripresa la Fiorentina riuscì a pareggiare con un goal realizzato dalla mezzala sinistra Scagliotti. Io me la cavai egregiamente, Rosetta guarì velocemente e per 11 incontri consecutivi fu riformata la coppia con Viri a destra e Foni a sinistra.
Fu poi nel febbraio del 1936 che disputai la seconda partita, quella volta in coppia con Rosetta. Risultato di gara decisamente negativo, perché la Lazio, a Roma, ci inflisse una secca sconfitta per 3-0. Ma intanto anche altri personaggi importanti si erano accorti di me. Non vi sto a dire la mia enorme soddisfazione nel vedermi convocato da Vittorio Pozzo nella squadra che avrebbe disputato il torneo calcistico alle Olimpiadi di Berlino».

L’esordio in campo internazionale al Post Stadion di Berlino, fu emozionante, quasi drammatico: la squadra azzurra, infatti, trovò incredibili difficoltà a battere la squadra degli Stati Uniti. Gli americani, decisamente inferiori in linea tecnica, impostarono la partita sotto il profilo agonistico, costellando ogni azione con interventi decisi e scorretti. Rava, manco a dirlo, si trovò a nozze, ma incorse addirittura in un’espulsione. «All’ottavo minuto della ripresa, per contendere una palla alta, entrai a gamba tesa e colpii la mezzala destra americana, tale Namechik, ad una spalla; era un’azione scorretta, ma indubbiamente involontaria, con conseguenze volutamente esagerate da parte del giocatore americano e massimamente dall’arbitro, che accorse e mi indicò la via degli spogliatoi. Rimasi accovacciato sui gradini degli spogliatoi per seguire l’andamento della partita, facendo un tifo sfegatato. Per fortuna Frossi segnò e riuscimmo a passere il turno».

Fortunatamente Rava non fu squalificato e poté quindi disputare tutte le altre gare, quella con il Giappone (3-0), con la Norvegia (2-1 dopo i supplementari) e l’ultima trionfale contro l’Austria (ancora 2-1, dopo i supplementari ).

Le partite al calor bianco furono sempre la specialità dell’indomabile terzino della Juventus; alla sua apparizione nella nazionale maggiore, in coppia con Monzeglio al Prater di Vienna, il 21 marzo 1937, si trovò a fronteggiare le indiscriminate scorrettezze degli austriaci. In maglia azzurra Pierone inanellò 24 presenze consecutive e concluse poi a quota 30, dopo il vittorioso incontro di Milano contro la Spagna: 4-0.

Piero Rava, dopo essere stato campione olimpionico nel 1936, diventò anche campione del mondo nel 1938, ai Mondiali di Parigi. Il fatto di aver conseguito la laurea mondiale giustificò alcune pretese di carattere economico. Un terzino campione del mondo non poteva essere pagato come riserva: così il biondo Piero iniziò una specie di sciopero, non giocando come la sua immensa classe gli avrebbe consentito. Ciò avvenne nel campionato 1938/39 e dopo la sconfitta subita a Modena (2-0) il 5 febbraio 1939, la Juventus decise di punire il giocatore, lasciandolo fuori squadra fino alla fine del campionato, tra i commenti compiaciuti dell’indignatissima stampa torinese: «Io volevo essere considerato fra i titolari, cioè professionista, da anni mi dedicavo al calcio con tutto me stesso; avevo cominciato da piccolino, proprio con la Juventus, mio solo amore, perché quei dirigenti non potevano accontentarmi? Così, a Modena, decisi di fare sciopero ed incrociai le braccia; non mi vergogno di averlo fatto. Erano tempi difficili e, per noi calciatori, poteva esserci la gloria, non la ricchezza; all’avvenire dovevo pur pensarci, intendevo mettere su famiglia».

Erano tempi molto difficili: «Era un derby, nel campionato 1944/45», racconta Piero, «Valentino Mazzola, arrabbiatissimo per un tunnel subito da Felice Borel, tenta vanamente di sferrargli una “carezza” a gioco fermo. Nasce subito una rissa, nella quale sono coinvolti una decina di giocatori e che termina con l’ingresso in campo delle milizie fasciste, che ci dividono. Contemporaneamente, udimmo dagli spalti l’inconfondibile boato provocato dalle sventagliate delle mitragliatrici, imbracciate da altri militanti del partito fascista; essi, infatti, non avevano trovato migliore soluzione per dissuaderci dalla nostra lite furibonda. Tutto il pubblico, scosso dalla paura, scappò dallo stadio e, noi giocatori, terminammo l’incontro in assoluta solitudine. Ovviamente, il giorno dopo nessun giornale riportò la notizia».

Rimase alla Juventus fino al 1950, totalizzando 316 presenze, arricchite da 14 goal; ci lascia nel novembre del 2006, mentre la Juventus sta festeggiando il suo 109° compleanno.


DI MAURIZIO TERNAVASO, DA "HURRÀ JUVENTUS" DEL SETTEMBRE 1988:

Seppure settantaduenne, il signor Rava, piemontese vecchia maniera, particolarmente gentile ed affidabile, pare ben più giovane: fonti solitamente ben informate mi hanno riferito di aver scorto quest’inverno la vecchia gloria mentre praticava il jogging nelle vicinanze del Comunale.

Signor Rava, che cosa ha implicato emotivamente la vittoriosa partecipazione alle Olimpiadi di Berlino? «Ha rappresentato sicuramente l’affermazione più prestigiosa della mia carriera, avendomi provocato una soddisfazione personale superiore a quella provata vincendo due anni dopo i Mondiali; sa, la squadra del 1936 era composta quasi totalmente da giovani provenienti dalla serie C, e per di più nessuno aveva mai giocato in Nazionale: immagini quindi la sorpresa».

Crede che la presenza del calcio alle Olimpiadi di oggi sia snaturata o perlomeno diversa rispetto a quanto accadeva prima della Seconda Guerra Mondiale? «Oh, non c’è paragone! Allora vigeva tra noi una gran voglia di giocare ed aleggiava il vero spirito decoubertiniano in una sorta di romanticismo dello sport; ora tutto è legato esclusivamente all’interesse monetario, la medicina chiamiamola sportiva ha fatto passi da gigante e l’ingresso dei munifici sponsor ha spoetizzato completamente anche un avvenimento quale l’Olimpiade. L’unico Dio pare oggi essere il denaro e, secondo me, ciò denota un pericoloso venir meno dei più genuini valori dell’umanità».

Ha avuto modo, in questi ultimi anni, di rivedere i compagni di quella avventura? E che cosa vi ha reso, in termini estremamente concreti, quella vittoria? «Purtroppo sono passati tanti, troppi anni da allora, e molti di loro sono mancati; inoltre non ho la possibilità di incontrare i sopravvissuti, perché vivono tutti lontano da Torino. Mi chiede di eventuali premi in denaro: ma neanche per sogno, tutto ciò che ottenemmo fu di partecipare a Roma, ovviamente nelle vesti di protagonisti, ad una importante cerimonia voluta da Mussolini nella quale ricevemmo grandi onori».

Chi era Pietro Rava prima che scegliesse di intraprendere la carriera di calciatore professionista? Cosa ne sarebbe stato di lui se non avesse sfondato in quel mondo? «Ero uno studente che si era iscritto ad Economia e Commercio e che forse avrebbe raggiunto la laurea pur giocando a pallone, se non fosse intervenuta la guerra: ero, infatti, un ufficiale e fui costretto dagli eventi a combattere anche in Russia, paese dal quale riuscii a tornare sfruttando una licenza stranamente concessami proprio per affrontare un esame che, ovviamente, non ebbi il tempo di preparare».

Sia sincero: anche ai suoi tempi si guadagnava bene? «Certo, ma non è assolutamente proponibile un confronto con quello che i giocatori di oggi riescono ad incamerare. Pensi che la vittoria ai Mondiali del 1938 fruttò ad ognuno di noi 10.000 Lire, circa 10 milioni del 1988, mentre il mio ingaggio per un intero campionato raggiunse al massimo le 80.000 Lire: per quanto riguarda i guadagni noi eravamo al livello di medici ed avvocati di buona caratura, mentre oggi molti, terminata la carriera, devono essere considerati dei veri e propri miliardari».

Ritiene che il divertimento provato dai giocatori che vanno in campo e quello di chi assiste agli incontri sia scemato rispetto agli anni in cui lei calcava i terreni di gioco? «In questi tempi perdere consecutivamente due partite provoca il finimondo e ciò fa sì che le tattiche, che a tutti i costi sono strutturate in modo tale da scongiurare un evento del genere, uccidano lo spettacolo ed il divertimento: spesso i giocatori paiono degli autonomi tenuti per le redini, perché si dimostrano privati della libertà di spaziare in ogni parte del campo; senza contare inoltre che le marcature sono diventate davvero troppo assillanti. Negli anni quaranta le tattiche permettevano ad ognuno di noi di sviluppare al meglio il proprio talento naturale e la personalità calcistica, sicché si poteva assistere domenicalmente ad incontri ricchi di emozioni e di reti e dall’andamento estremamente incerto».
 
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